Per inflazione si intende quel fenomeno che determina una perdita di potere d’acquisto della moneta. Se ad inizio anno con 100 euro potevo comprare dieci libri, mentre a fine anno posso comprarne solo 8, significa che i prezzi sono saliti e, quindi, quella somma di denaro ha perso parte del suo potere d’acquisto. Se, invece, a fine anno posso comprare più di 10 libri, allora i prezzi sono diminuiti e quindi, a causa della deflazione, la mia somma di denaro ha accresciuto il suo potere d’acquisto.
Per avere l’inflazione, non è necessario che aumenti il prezzo di tutti i beni presenti all’interno del mercato, ma sarà sufficiente un aumento medio del livello dei prezzi.
Secondo una visione largamente accettata dagli economisti, avremo il fenomeno dell’iperinflazione quando la variazione media annua dei prezzi è superiore al 500% e la situazione non riesce ad essere governata tramite il controllo dell’autorità monetaria. Questo si è verificato diverse volte, all’inizio dello scorso secolo come in tempi più recenti. Per esempio, la Germania, per far fronte all’immenso debito contratto dopo la prima guerra mondiale, non ha resistito alla tentazione di stampare moneta per adempiere alle obbligazioni che gravavano sullo Stato. A causa dell’aumento elevato di offerta di moneta, iniziò un’iperinflazione selvaggia (con tassi di quasi 6000 punti l’anno), talmente grave che persino un pezzo di pane arrivò a costare 200 000 marchi.
Negli ultimi decenni si è assistito a fenomeni simili in America Latina, in Argentina e in Brasile fino alla più recente crisi monetaria del Venezuela, o in paesi usciti da esperienze socialiste come la
Russia o i paesi dell’ex Jugoslavia.
Le conseguenze principali dell’iperinflazione sono due: la prima è che si assiste alla sostituzione della moneta interna con una valuta estera; come in Venezuela, dove si fa un uso esteso del dollaro statunitense per tenersi al riparo dalla giornaliera perdita di potere d’acquisto della valuta nazionale.
La seconda è l’esplosione di un mercato nero in cui gli scambi regrediscono alla forma del baratto.
Il fenomeno opposto è rappresentato dalla deflazione, che determina una diminuzione del livello generale dei prezzi. Ad esempio, negli Stati Uniti il livello dei prezzi, tra il 2008 e il 2009, è sceso del 1,3%.
Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, la delfazione non è un fenomeno positivo, in quanto implica un’economia in recessione nella quale il PIL reale e la domanda aggregata sono al di sotto del livello ottimale (punto di equilibrio).
Quando un’economia entra in deflazione, la domanda di imprese e consumatori diminuisce poiché si punta a posticipare gli acquisti con la speranza di ottenere prezzi ancora più bassi. Aumentando il valore di ogni
unità di moneta, il debito, sia pubblico che privato, diventa più oneroso.
Cresce, così, il pericolo di default e bancarotta per cui anche le banche diventano meno disponibili a concedere credito, in un momento in cui, invece, servirebbe più liquidità. Anche la deflazione, quindi, rappresenta uno squilibrio del mercato che necessita un intervento correttivo.
Un fenomeno particolare si è avuto nei paesi che hanno affrontato una transizione da un sistema socialista a economia pianificata a un sistema di economia di mercato. La pianificazione economica prevede che i prezzi vengano fissati dall’autorità amministrativa. Una volta che questi paesi liberalizzarono il sistema dei prezzi, tuttavia, l’iperinflazione esplose.
Probabilmente si scoperchiò l’inflazione latente di queste economie tenuta nascosta da prezzi tenuti bassi artificiosamente. Dopo l’ufficiale dissoluzione dell’Unione Sovietica (25 Dicembre 1991), i prezzi si innalzarono del 800-900% solo nei primi sei mesi del 1992, con picchi ancora più alti per certi beni di prima necessità: il sale, ad esempio, passo da 9 kopeki a 9 rubli al kilo (100 volte tanto). Si verificò, quindi, il fenomeno della shortage-inflation: scarsità di beni essenziali associata ad una elevata inflazione.
Come possiamo vedere, sono differenti le cause che portano ad un aumento dell’inflazione. La prima causa, già accennata, è un eccesso di offerta monetaria all’interno del mercato che, spingendo la curva verso l’alto, aumenta il livello generale dei prezzi.
Un’altra ipotesi è quella dell’eccesso di domanda: in un sistema che ha raggiunto la piena produttività, nel caso aumenti la domanda di mercato, il PIL reale (offerta di mercato) non può essere incrementato, per cui sarà solo il livello dei prezzi a salire. Arthur Philips, economista neozelandese, ha trovato connessione inversa tra disoccupazione e inflazione. A livelli di disoccupazione più altri le lotte sindacali e le rivendicazioni salariali vengono mitigate rispetto a mercati dove c’è una abbondanza di lavoro.
Questo significa che a livelli bassi di disoccupazione gli imprenditori sono più portati ad aumentare le retribuzioni, spingendo in alto i prezzi.
In caso di importazione di beni o fattori di produzioni dall’estero, a prescindere dalla dinamica dei prezzi interna, un aumento del tasso di inflazione del paese esportatore determinerà un aumento dell’inflazione
anche all’interno del paese importatore, il quale avrà più difficoltà ad importare i prodotti necessari.
Inflazione può essere causata da un aumento del prelievo fiscale, sia per una variazione delle imposte dirette sia per quelle indirette. Entrambe vanno, infatti, ad incidere sul livello dei prezzi: le tasse sul reddito scoraggiano l’attività economica e la maggiore onerosità dei tributi viene spesso scaricata sui consumatori; quelle sul consumo, invece, incidono direttamente sul prezzo finale.
Infine, l’inflazione può essere anche settoriale: lavoratori dei settori meno produttivi spingeranno per avere salari analoghi a quelli dei settori più produttivi. E questo può portare ad un aumento di inflazione perché ad un incremento dei salari non corrisponderà un aumento nella produzione.